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The Counselor Empty The Counselor

21/1/2014, 03:08
Film di raffinata ed esibita costruzione formale. Riprende, dissimula ed esaspera alcuni topoi di Prometheus.
Il linguaggio è consapevolmente stereotipato, ma, a differenza del predecessore, con una sorvegliata cesura di ciascuna parte, in relazione al proprio contesto socioambientale e narrativo.
Anche in questo film,  l' immagine è come una lassa, una unità poetica in sé stilisticamente conchiusa di racconto ad episodi, ma rispetto a Prometheus è come se l' immagine si distendesse con agio nella sequenza, in luogo di rapprendersi nell' inquadratura.
Il montaggio ne risulta più elaborato e la dilatazione temporale più scoperta.
Non è una metafora (una espressione che rimanda ad altro tramite una mimesi imperfetta), ma un modello in miniatura, entro cui formicolano una miriade di segni, visibilmente eccedenti il proprio puntuale significato (che pure esiste, nell' economia della sintassi narrativa).
Continua il respingimento dello sguardo dello spettatore, nell' impossibilità orrifica di identificarsi nella storia o nei personaggi: come uno scienziato che sperimenti con gli animali in laboratorio.
E' un film colmo di parole, tutte con un loro senso, nel contesto proprio, ma l' intenzione più segreta è quella di un film muto, brulicante di rumore.
Gelido e fatale.
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The Counselor Empty Re: The Counselor

21/1/2014, 03:10
Una mezza stroncatura (che non condivido) da parte di una critica di valore.

Giulia d' Agnolo Vallan-Il Manifesto.

Pochi film ame­ri­cani dell’anno scorso sono stati sel­vag­gia­mente fatti a pezzi dalla cri­tica come quest’attesissima col­la­bo­ra­zione tra Cor­mac McCar­thy e Rid­ley Scott. Con l’eccezione (tra le firme note) di Scott Foun­das (Variety) e Mano­hla Dar­gis (New York Times), i cri­tici Usa hanno rega­lato a The Coun­se­lorun trat­ta­mento simile a quello riser­vato nel film dalle chee­tah di Came­ron Diaz alle loro vit­time. Molto spesso con un voca­bo­la­rio tur­gido, ecces­sivo, quasi ispi­rato da quello che Scott ha scelto per modu­lare il suo ultimo lavoro.
«Un film mum­ble­core con­ce­pito da un gruppo di stu­denti di filo­so­fia di Sarah Law­rence e rea­liz­zato da ric­coni pieni di coca per stra­mi­liardi di dol­lari», lo ha defi­nito per esem­pio Andrew O’Heir, su Salon. Comi­ca­mente crip­tica Lisa Ken­nedy sul Den­ver Post: «I film pos­sono essere come dei poli­ziotti in bor­ghese, troppo inna­mo­rati dei mondi che stanno esplorando».
Tempi inter­mi­na­bili, colori iper­sa­turi, dia­lo­ghi fiume, la foto­gra­fia pati­nata che ricorda gli spot dei generi di lusso di ven­ti­cin­que anni fa, la mac­china usata in modo insop­por­ta­bil­mente pon­de­roso (che sia ferma o in movi­mento), donne bel­lis­sime ma un po’ ten­denti al fanè…: alla fine degli anni ottanta The Coun­se­lor sarebbe stato con­si­de­rato un capo­la­voro postmoderno.
Oggi, la pro­fonda disat­tua­lità che sem­bra aver infe­ro­cito tutti (incassi deva­stanti come le recen­sioni) diventa l’unico reale punto di inte­resse del film, la «stra­nezza» che obbliga lo spet­ta­tore ad aggiu­stare con­ti­nua­mente lo sguardo (dato che la para­bola anti­ca­pi­ta­li­stica che forse ci vedeva McCar­thy non tiene proprio….)
Michael Fas­sben­der è un avvo­cato di El Paso che incon­triamo sotto le len­zuola dove sta diver­ten­dosi con Pene­lope Cruz. I due si amano molto e ovvia­mente hanno «che­mi­stry», solo che lui si fa ten­tare dal mirag­gio del soldo facile e fini­sce coin­volto in un’indecifrabile ope­ra­zione di droga orche­strata da Brad Pitt, Javier Bar­dem e Came­ron Diaz, dark lady iper­bo­lica che umi­lia i suoi amanti esi­ben­dosi in fan­ta­siosi amplessi soli­tari –per esem­pio con il para­brezza di un’auto.
Alla sua prima sce­neg­gia­tura ori­gi­nale, McCar­thy affida a que­sti suoi per­so­naggi cifra, flussi inter­mi­na­bili di parole che dovreb­bero con­vo­gliare in un qual­cosa di impor­tante. Ma i dia­lo­ghi di McCar­thy non sono quelli di Elmore Leo­nard, Rid­ley Scott non è suo fra­tello Tony e, pulp san­gui­na­rio per pulp san­gui­na­rio, Brad Pitt sem­brava diver­tirsi molto di più in Una vita al mas­simo (True Romance).
 McCar­thy è un autore dif­fi­cile da tra­durre al cinema. Per­sino i fra­telli Coen hanno smor­zato un po’ la loro imper­tur­ba­bile cool­ness adat­tando Non è un paese per vec­chi. Solo James Franco, per ora, è riu­scito ad affron­tarlo in modo libero, anti­con­ven­zio­nale nel suo Child of God. In The Coun­se­lor, non aiuta la sce­neg­gia­tura piena di sè un regi­sta pieno di sè come Scott, che invece di sca­vare nel vor­ti­coso testo per dar­gli forma, scol­pirlo, tirarne fuori la forza, opta per un’adesione foto­gra­fica alla pre­ten­zio­sità del tutto.

Il risul­tato è un film non riu­scito, ma anche una trance così radi­cal­mente con­tro­ten­denza che vale il prezzo del biglietto
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